Bandiera culinaria del Piemonte, i tajarin sono un formato di pasta fresca all’uovo lavorata a matassa. Nell’ultima opera di Luciano Bertello, “Piccola storia dei tajarin“, in libreria dal 4 maggio, diventano il pretesto per narrare la storia della Langa e il suo affresco sociale. L’evoluzione dei tajarin – da piatto semplice del pranzo familiare a protagonista della scena gastronomica internazionale – molto ci dice sulla rinascita di un territorio, un tempo appartato e oggi meta turistica di spicco.
Di seguito pubblichiamo la bella prefazione al libro, firmata da Carlo Petrini.
Negli ultimi trent’anni mi sono sentito sovente domandare quale sia il mio piatto preferito. Ritengo che nessuna domanda possa risultare più impertinente per un gastronomo. Chi intraprende questo particolare percorso prova infatti una tale passione per il cibo che il suo appetito viene soddisfatto unicamente dalla conoscenza di ciò che il cibo è e rappresenta per l’essere umano. Il gastronomo quindi convive con un sentimento di fame, dello stomaco e della mente, per ciò che è intrinseco a ogni cultura gastronomica del mondo; un impulso che non lo porterà mai a preferire una preparazione rispetto a un’altra.
Dunque, in risposta alla famigerata domanda sulle mie preferenze culinarie, per evitare di mettere in imbarazzo l’interlocutore sono solito rispondere che il piatto con cui mi sono più rapportato nell’arco della mia vita è un piatto di tajarìn.

La frequenza con cui si mangia una preparazione non è sempre direttamente correlabile alla preferenza di gusto. Per onestà intellettuale, devo comunque ammettere che tuttora basta un piatto dei tipici tagliarini langaroli, conditi anche solo con olio e parmigiano, per soddisfare il mio appetito da gastronomo di lunga data. E questo perché tutte le volte che mi capita di assaporare questa particolare vivanda, oltre a ritrovare una ricetta iconica della mia zona di origine, succede di immergermi nella vera cucina contadina, ovvero quella che ritengo essere la culla di ogni cultura gastronomica.
Come per tutte le ricette di umile origine, anche in questo caso non esiste un manifesto che enunci le quantità precise dei singoli ingredienti al fine di ottenere dei perfetti tajarìn. Ogni casa, ogni famiglia, ogni osteria ha sempre avuto la propria ricetta, spesso tramandata oralmente da madre in figlia (o forse sarebbe meglio dire da nonna a nipote), in cui il minimo comune denominatore è l’utilizzo di farina di grano tenero e uova. Pochi ingredienti poveri che però, come spesso è accaduto, hanno dato vita a un’importante tradizione culinaria. Chi li prepara con soli rossi d’uovo, chi con tuorli più alcune uova intere, chi aggiunge acqua e chi vuole ammorbidire l’impasto con un cucchiaio di olio. Insomma, di tajarìn in Langa se ne sono visti e se ne sono mangiati di tutti i tipi. Tuttavia, a me personalmente questo termine dialettale, rimasto pressoché inalterato con il passare dei secoli – quasi a voler consacrare il suo forte radicamento nel territorio –, evoca l’immagine affettuosa di una persona in particolare.

Anche l’autore di questo libro riprenderà la figura di Maria Pagliasso come una delle grand-mère de la table che hanno caratterizzato la gastronomia langarola da cinquant’anni a questa parte. Maria, per noi braidesi Maria del Boccondivino, è stata però una “nonna” comune, in grado di sfamare nel migliore dei modi generazioni di giovani e di educarci al mondo della gastronomia come nessun altro. Il mio pensiero va a lei in quanto i tajarìn di Maria sono diventati mitologici per il numero di rossi d’uovo: ben 40 per chilo di farina. Un’ostentazione che trova la sua connotazione storica nella fase del boom economico, ma che ha saputo rivisitare la ricetta con grande sapienzialità gastronomica. Infatti, sebbene una tale quantità di tuorli richieda uno sforzo fisico non indifferente nella fase di preparazione dell’impasto, l’elasticità ottenuta è in grado di conferire una consistenza apprezzabile da chiunque al momento dell’assaggio. Proprio su questo aspetto si è creato il mito del Boccondivino di Bra. E si può dire che Maria sia stata una maestra straordinaria per tanti giovani che oggi presidiano ristoranti del territorio. Era solita trasmettere i suoi segreti culinari non tramite la parola, ma con l’esempio. Inoltre, si è dimostrata una precettrice che, pur saldamente ancorata alle sue origini, ha sempre saputo lasciare il giusto spazio all’innovazione del gusto.
Dal Monferrato all’alta Langa, passando per il Roero, i tajarìn rimangono un appuntamento fisso per ogni palato. A livello personale, devo dire che hanno segnato molte tappe importanti della mia carriera di gastronomo. Prima tra tutte, ricordo che anche alla cena inaugurale dell’avventura di Slow Food furono serviti dei meravigliosi tajarìn. In quell’occasione la padrona di casa era un’altra fantastica donna: Pina Bongiovanni, che a Treiso, assieme al marito Beppe Marcarino, gestiva la storica Osteria dell’Unione. Tra quei tavoli germogliò l’idea originaria del movimento internazionale che divenne da lì a poco Slow Food; e ancora oggi mi piace ricordare Pina come parte fondamentale dell’inizio dell’avventura. Chissà, chi può dire se senza i suoi tagliarini tutto sarebbe andato nella stessa direzione?

Ecco che, quando Luciano Bertello mi ha chiesto di fornire un contributo al suo lavoro, per questo mio forte legame con i tajarìn non ho potuto esimermi. Nelle prossime pagine sarà sviscerata la storia di una vivanda che ha saputo attraversare i secoli grazie alle più elevate forme di personalizzazione (una per ogni tavolo su cui è stata stesa la pasta) e all’alto valore culturale che ha portato con sé. La curiosità, la ricerca e la passione che intavola Luciano in questo libro sono tutti aspetti degni di un vero gastronomo. Egli fornisce, con dovizia di particolari, uno spaccato della ristorazione langarola dal secondo dopoguerra a oggi. E, dato che «la gastronomia è la conoscenza ragionata di tutto ciò che riguarda l’uomo in quanto egli si nutre» (Meditazione III della Fisiologia del gusto di Jean-Anthelme Brillat-Savarin), un’opera di questo tipo si inserisce a pieno titolo tra i manuali di gastronomia moderna.
Voglio concludere riportando un ragionamento sul mantenimento di qualsiasi tipo di tradizione. Non esiste alcuna forma di innovazione ben riuscita che non ponga le sue basi sul solido concetto di tradizione. Così come ogni buona tradizione necessita di un continuo, gentile e rispettoso rinnovamento per potersi mantenere in vita. Dico questo perché oggi vediamo molte delle nostre tradizioni culinarie tenute vive grazie al lavoro di donne e uomini di origini lontane dalle nostre. Le loro mani e i loro gesti seguono gli insegnamenti di maestre come Maria o Pina; e questo non rappresenta in alcun modo un impoverimento culturale.
Perché, se è vero che «la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri», il tratto di innovazione che oggi viene richiesto alla nostra cultura gastronomica, al fine di tramandare nel tempo prelibatezze come gli stessi tajarìn, è uno solo: l’integrazione. Questo va tenuto ben a mente!
Buona lettura.
2 commenti
Ringrazio per l’interessantissimo documento sui tajarin. Si potrebbe aggiungere qualche considerazione sulla farina di grano tenero, di quale varietà , di quale ambiente? e sulle uova di galline ad allevamento intensivo, anche a terra che poco cambia e uova di galline al pascolo su cotici erbosi a rotazione.
I tajarin fanno parte della mia vita
La mamma era nata a Mondovì e noi passavamo le nostre vacanze estive a Briaglia